domenica 11 gennaio 2009

Chi ce lo fa fare

A volte uno si chiede, chi ce lo fa fare. Stare lì un anno a lavorare su un pezzo che va in scena due volte, grasso che cola tre. Perché tutto questo pubblico per il teatro in italiano ad Amsterdam, non è che ce ne sia.

Anche perché ci vuole un certo tipo di pubblico per i nostri pezzi. Innanzitutto perché scegliamo sempre testi scomodi. Divertenti, tutti, per carità, c'è anche gente che viene per farsi due risate e non li deludiamo mai, da sei anni a questa parte. Ma se hai certi oblò aperti in testa, come spettatore non puoi fare a meno di accorgerti dei sassolini nella scarpa di cui sono disseminati tutti i nostri pezzi.

Non è che lo facciamo apposta, perché le cose si creano e saltano fuori durante tutti i mesi di prove, discussioni, messa in scena, produzione. Certe volte sei lì, a fare il tuo lavoro, o la spesa o una cosa che non c'entra niente e tac - vedi qualcosa, qualcuno, un tic, un'espressione, un modo di fare e ti dici: eureka. Ce l'ho.

E certe volte, che ormai tra di noi ci conosciamo tanto, ma tanto bene, che gli altri vedono di te quello che tu ancora non ci arrivi, e si tratta pur della tua vita, ci sorprendiamo da soli.

Come alla prova di venerdi scorso. con il veterinario e il fotografo assenti giustificati e i due giovani geni video e scenografia a seguirci con il blocco degli appunti e il copione in mano, che adesso basta leggicchiare così per farci un'idea, è gennaio e si comincia a fare sul serio.

E così Gloria e Monti, nella famigerata scena X. Quella in cui ti rendi conto che questo testo non parla di quello che pensavi tu alle prime scene, parla di altro. Comuncia ad uscire dai binari ordinati della logica della vita quotidiana. Una scena buttata lì così per la prima volta con qualche gesto, un tentativo di memoria, un fascio di fogli del copione in mano.

E che ci ha inchiodati alla sedia. Io li conosco Roberto e Silvia, li conosco come tali, come Pinocchia e Geppetto, come la babysitter e l'uomo, come amici, come professionisti, come miei figli, miei fratelli di sangue miei genitori putativi. Ma così, così non li conoscevo ancora.

Stavamo tutti lì, noi quattro spettatori, inchiodati alle sedie, a ridacchiare imbarazzati. Come quando a una festa di compleanno dei bambini in casa, apri per sbaglio una porta e vedi lì due tuoi amici accoppiati altrove, assolutamente insospettabili, che lì, nello stanzino stanno scopando e manco si accorgono che per sbaglio hai aperto la porta. che dici pardon a mezza bocca richiudi in fretta, ma in quel momento ti si è rivoltata una visione del mondo e delle persone che pensavi di conoscere, e torni di là rimettendoti in faccia una faccia come prima e dici: bambini, la torta.

Ecco, per quei momenti lì. In cui esci da te stesso e persino chi ti conosce benissimo, non ti conosce più. come quella volta che con Dimitri abbiamo fatto una serata di musica e poesia a Ofena, in piazza sui gradini, con un faretto da muratore puntato addosso, e alla fine è arrivata gente che mi conosce da 4 generazioni per dirmi: lì sopra, io non ti avevo neanche riconosciuta.

Il miglior motivo per farlo, se date retta a me.

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